Di là dal muro. Autobiografia di un direttore di carcere (1934-1976)
Michele Ferlito
stralci
L’infermiera
che trasportava su una sedia a rotelle un essere, non so bene se
adulto o bambino, si rivolse a mio padre che, chino su quella
creatura, l’accarezzava parlandole affabilmente, e gli disse, con
l’eccitazione di una madre che sente il primo vagito del proprio
bimbo: “Guardi Ispettore, sta sorridendo!”. Poi con tono pacato e
riflessivo, aggiunse: “Basta un attimo di gioia per giustificare
una vita di sofferenze”.
Eravamo
al Cottolengo, un istituto dove la sofferenza la fa da padrone.
Mio
padre era in visita ufficiale presso quell’istituto, in qualità di
neo direttore del carcere di Torino, ove era stato trasferito da
quello di Catania. Era stato da poco promosso al grado di ispettore.
Io, Giuseppe, il più anziano dei maschi della sua famigliola di
nove figli, l’accompagnavo, malvolentieri e quasi infastidito.
Non
colsi allora quel sorriso: forse ero confuso o forse il mio occhio
inesperto e distratto era incapace di rilevare sfumature di pianto o
di sorriso in quella creatura, ma fu un bagliore che diventò
certezza; la certezza che ogni essere, indipendentemente dalla sua
condizione, se ha diritto alla vita, ha diritto a quella mano protesa
e a quella carezza.
Nessuno
insegnò a mio padre come tendere la sua mano. Fu il contatto
continuo con la gente privata della libertà e degli affetti che
istintivamente gliela fece allungare. Era “zio Michele” per tutti
i detenuti delle sue carceri i quali, altrettanto istintivamente,
intuivano la genuinità del suo animo proteso a cogliere la perla
dentro l’ostrica e non l’incrostazione del guscio.
Fu
questo il suo insegnamento per me e per i miei fratelli. Non
predicato con le parole, ma mostrato con l’esempio, con il suo
vivere “prigioniero” dei suoi detenuti, con il suo peregrinare
tra chi, o per natura o per legge, era stato relegato ai margini
della società. Raramente avevamo con lui uno scambio di opinioni:
non amava insegnare, ma ricordo che un giorno dissertando sulla
necessità della pena per chi commette un reato, mi disse col tono di
chi ribadisce una verità nota: “Se una buona azione coinvolge
l’universo intero, e quindi anche me, a prescindere dal suo autore
io mi sento responsabile assieme all’universo intero, di un
crimine, chiunque l’abbia commesso”.
Ora,
a ottantasei anni, vive prigioniero dei suoi ricordi, ancora sotto il
peso di quelle responsabilità e amputato, ormai da quindici anni,
dell’affetto più caro, quello di mia madre, che seppe stare al suo
fianco con serenità e grande forza d’animo, tra le rivolte dei
detenuti e durante i drammatici giorni dell’alluvione di Firenze.
Con
la speranza che, rileggendosi, possa evadere da dentro le massicce
mura dei ricordi, a lui e alla memoria della sua fedele compagna, io,
i miei fratelli e le mie sorelle dedichiamo l’edizione di questo
memoriale che, con occhio discreto, permette di dare uno sguardo di
là dal muro di alcune carceri che l’ebbero come direttore sin dal
1934 e lo videro congedarsi da ispettore generale, a sessantacinque
anni, nel maggio del 1976.
I figli
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