25 agosto 1997

DI LA' DAL MURO


Di là dal muro. Autobiografia di un direttore di carcere (1934-1976)
Michele Ferlito


stralci


L’infermiera che trasportava su una sedia a rotelle un essere, non so bene se adulto o bambino, si rivolse a mio padre che, chino su quella creatura, l’accarezzava parlandole affabilmente, e gli disse, con l’eccitazione di una madre che sente il primo vagito del proprio bimbo: “Guardi Ispettore, sta sorridendo!”. Poi con tono pacato e riflessivo, aggiunse: “Basta un attimo di gioia per giustificare una vita di sofferenze”.
Eravamo al Cottolengo, un istituto dove la sofferenza la fa da padrone.
Mio padre era in visita ufficiale presso quell’istituto, in qualità di neo direttore del carcere di Torino, ove era stato trasferito da quello di Catania. Era stato da poco promosso al grado di ispettore. Io, Giuseppe, il più anziano dei maschi della sua famigliola di nove figli, l’accompagnavo, malvolentieri e quasi infastidito.
Non colsi allora quel sorriso: forse ero confuso o forse il mio occhio inesperto e distratto era incapace di rilevare sfumature di pianto o di sorriso in quella creatura, ma fu un bagliore che diventò certezza; la certezza che ogni essere, indipendentemente dalla sua condizione, se ha diritto alla vita, ha diritto a quella mano protesa e a quella carezza.
Nessuno insegnò a mio padre come tendere la sua mano. Fu il contatto continuo con la gente privata della libertà e degli affetti che istintivamente gliela fece allungare. Era “zio Michele” per tutti i detenuti delle sue carceri i quali, altrettanto istintivamente, intuivano la genuinità del suo animo proteso a cogliere la perla dentro l’ostrica e non l’incrostazione del guscio.
Fu questo il suo insegnamento per me e per i miei fratelli. Non predicato con le parole, ma mostrato con l’esempio, con il suo vivere “prigioniero” dei suoi detenuti, con il suo peregrinare tra chi, o per natura o per legge, era stato relegato ai margini della società. Raramente avevamo con lui uno scambio di opinioni: non amava insegnare, ma ricordo che un giorno dissertando sulla necessità della pena per chi commette un reato, mi disse col tono di chi ribadisce una verità nota: “Se una buona azione coinvolge l’universo intero, e quindi anche me, a prescindere dal suo autore io mi sento responsabile assieme all’universo intero, di un crimine, chiunque l’abbia commesso”.
Ora, a ottantasei anni, vive prigioniero dei suoi ricordi, ancora sotto il peso di quelle responsabilità e amputato, ormai da quindici anni, dell’affetto più caro, quello di mia madre, che seppe stare al suo fianco con serenità e grande forza d’animo, tra le rivolte dei detenuti e durante i drammatici giorni dell’alluvione di Firenze.
Con la speranza che, rileggendosi, possa evadere da dentro le massicce mura dei ricordi, a lui e alla memoria della sua fedele compagna, io, i miei fratelli e le mie sorelle dedichiamo l’edizione di questo memoriale che, con occhio discreto, permette di dare uno sguardo di là dal muro di alcune carceri che l’ebbero come direttore sin dal 1934 e lo videro congedarsi da ispettore generale, a sessantacinque anni, nel maggio del 1976.
I figli










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